Quanto costa un investigatore privato per indagini assenteismo dipendente a Milano? Come è facile intuire, gli investigatori privati a Milano hanno tariffe e prezzi variabili che si basano sulla complessità delle indagini da svolgere. In linea di massima le investigazioni in ambito Privato-Aziendali e famigliari sono tra le più richieste ed i costi orari partono da un minimo di 40 euro ad un massimo di 80 euro per agente operativo. A livello di tariffe, per un servizio efficace non si può scendere al di sotto di un minimo di 500 euro al giorno. I detective privati specializzati generalmente propongono tariffe giornaliere tra 500 e 1.000 euro.
Diseguito riportiamo alcune sentenze e normative per licenziamento per giusta causa per assenteismo ecc. Il licenziamento per assenze ingiustificate è illegittimo: le motivazioni della Corte di Cassazione spiegare tutti gli esempi pratici caso per caso, alla luce della normativa.
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Il datore di lavoro può far pedinare i dipendenti dai detective di un’agenzia investigativa per vedere dove vanno e cosa fanno durante le ore di permesso? SI, SI. SI!!!!!
Molti datori di lavoro sospettano che i propri dipendenti abusino della fiducia loro concessa, specialmente quando sono in malattia oppure usufruiscono di vari tipi di permessi, orari o giornalieri: da quelli concessi ai sensi della legge 104 per assistere un familiare disabile a quelli spettanti ai rappresentanti sindacali. Così alcune aziende fanno pedinare i lavoratori da un investigatore privato per vedere dove vanno e cosa fanno durante le ore di malattia o di permesso.
Talvolta, il detective scopre che qualcuno approfitta delle “ore libere” come se fossero una pausa ricreativa, o magari le usa per dedicarsi ad attività che non hanno nulla a che vedere con le finalità per cui erano state messe a disposizione, ed anche retribuite. In questi casi, c’è una violazione del patto di fedeltà che lega il dipendente al datore, e anche un danno economico per quest’ultimo: così la sanzione disciplinare è severa e può arrivare fino al licenziamento in tronco. Ma si può licenziare un lavoratore con le prove dell’investigatore privato? Che valore hanno le sue dichiarazioni, le foto che ha scattato, i documenti che ha raccolto, le informazioni che ha acquisito? Il lavoratore licenziato può contestare tutto ciò? Vediamo.
Indice
* 1 Quando si può far pedinare un lavoratore dall’investigatore privato?
* 2 Cosa può fare l’investigatore privato durante i pedinamenti?
* 3 Che valore hanno le prove raccolte dall’investigatore privato ai fini del licenziamento?
* 4 Approfondimenti
Quando si può far pedinare un lavoratore dall’investigatore privato?
I poteri di vigilanza e di controllo del datore di lavoro sull’operato dei propri dipendenti si estendono anche al di fuori dei luoghi di lavoro e degli orari di servizio. La giurisprudenza ammette da anni che è lecito ricorrere ad agenzie investigative private, non solo quando sono state già raccolte evidenti prove di infedeltà compiute dai dipendenti, ma anche quando c’è un semplice sospetto della loro commissione.
L’importante è che lo “spionaggio” del datore di lavoro non si traduca mai in una verifica sull’espletamento delle prestazioni lavorative: la legge [1] vieta l’impiego di guardie giurate o di altro personale di vigilanza, come gli investigatori privati, nei luoghi di lavoro, tranne che per la tutela del patrimonio aziendale. All’esterno, invece, tutto cambia: il datore di lavoro può far sorvegliare e pedinare i dipendenti da detective di sua fiducia (ma non quando il lavoratore è in missione, perché tale periodo è considerato come svolgimento degli incarichi affidati e, pertanto, è equiparato alle normali prestazioni lavorative interne).
In estrema sintesi, non si può spiare ciò che fanno i dipendenti in azienda, ma fuori sì. Di solito, il pedinamento di un lavoratore dall’investigatore privato viene disposto dal datore di lavoro per controllare se quel dipendente è veramente in malattia oppure se sta utilizzando il permesso per le finalità consentite dalla legge e non per altri scopi che non hanno nulla a che fare con ciò.
Cosa può fare l’investigatore privato durante i pedinamenti?
L’investigatore privato durante i pedinamenti dei lavoratori di cui lo ha incaricato il datore di lavoro, può scattare foto e registrare video, purché ciò avvenga in luoghi pubblici o aperti al pubblico (come bar, negozi, cinema e ristoranti) e non in luoghi di privata dimora. Può anche utilizzare strumenti di rilevamento della posizione di persone e autoveicoli (come il localizzatore satellitare Gps), raccogliere informazioni sui luoghi frequentati dalla persona pedinata e redigere annotazioni e relazioni di servizio (dette anche report investigativi) per documentare la propria attività nei confronti di chi gli ha commissionato l’incarico.
In ogni caso, però, il pedinamento non deve essere mai invasivo della libertà personale e dei luoghi privati o risultare molesto, altrimenti costituirebbe reato, come ha affermato in varie occasioni la Corte di Cassazione [2]. In proposito, leggi “Investigazioni: quando il pedinamento è reato“.
Che valore hanno le prove raccolte dall’investigatore privato ai fini del licenziamento?
Una volta chiarito che l‘investigatore privato può controllare un dipendente, purché ciò avvenga alle condizioni ed entro i limiti che abbiamo detto, resta da vedere che valore hanno le prove raccolte dal detective o dall’agenzia investigativa ai fini del licenziamento intimato al lavoratore infedele. In concreto, potrà trattarsi di prove documentali (ad esempio, le fotografie scattate e le localizzazioni Gps) e di testimonianze rese nella causa di lavoro, instaurata con l’opposizione del lavoratore al licenziamento.
La tematica della prova dell’attività investigativa compiuta da un detective privato incaricato dal datore di lavoro è stata affrontata in una recente ordinanza della Cassazione [3], che ha ritenuto legittimo il licenziamento adottato nei confronti di alcuni lavoratori portuali i quali, durante le ore di permesso sindacale loro concesse, in quanto rappresentanti della sicurezza aziendale, avevano svolto attività incompatibili con tale incarico.
L’investigatore privato aveva reso la sua rituale testimonianza nel processo, confermando, nel contraddittorio con i lavoratori licenziati, tutte le circostanze già elencate nel report investigativo che aveva consegnato alla società datrice di lavoro. La relazione scritta e la deposizione testimoniale hanno documentato per filo e per segno tutti i movimenti compiuti da quei dipendenti mentre fruivano dei permessi. Risultava in modo chiaro che costoro avevano utilizzato quelle ore per fini privati: il detective ha attestato davanti al giudice che andavano al passeggio, al bar, a fare shopping e a sbrigare commissioni. Il tutto si era svolto nell’arco di più di tre mesi consecutivi.
I lavoratori licenziati avevano contestato che gli elementi raccolti e descritti dall’investigatore privato non erano «realmente rappresentativi dell’attività espletata dal lavoratore», ma la doglianza non ha convinto i giudici della Suprema Corte: è vero che nel licenziamento disciplinare – detto anche licenziamento per “giusta causa” – la prova del comportamento scorretto del dipendente grava sul datore di lavoro, ma se egli fornisce elementi positivi in tal senso tocca al lavoratore contestare tale ricostruzione e dimostrare che le ore di permesso erano state fruite per le attività accordate dalla legge e non per altri scopi.
Approfondimenti
* Investigatore privato sul dipendente;
* Licenziamento: posso ricorrere all’investigatore privato?;
note
[1] Art. 2 L. n. 300/1970 (Statuto dei lavoratori).
[2] Cass. sent. n. 18117/2014, n. 43439/2010 e n. 5855/2001.
[3] Cass. ord. n. 17287 del 27.05.2022.
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Il licenziamento per giusta causa è previsto dall’art. 2119 c.c. e si realizza in presenza di un comportamento talmente grave da impedire la prosecuzione del rapporto nemmeno a titolo provvisorio, in questo caso l’inadempimento avvenuto è di una gravità tale da non poter essere sanzionato in altro modo se non con il licenziamento.
Esempi: rifiuto ingiustificato e reiterato di eseguire la prestazione lavorativa / insubordinazione; rifiuto a riprendere il lavoro dopo visita medica che ha constatato l’insussistenza di una malattia; lavoro prestato a favore di terzi durante il periodo di malattia, se tale attività pregiudica la pronta guarigione e il ritorno al lavoro; sottrazione di beni aziendali nell’esercizio delle proprie mansioni (specie se fiduciarie); condotta extra lavorativa penalmente rilevante ed idonea a far venir meno il vincolo fiduciario.
La Corte di Cassazione spiega in quali casi il licenziamento è illegittimo se il datore di lavoro non riesce a dimostrare, nella loro materialità, le assenze ingiustificate del lavoratore: l’onere della prova sulla sussistenza della giusta causa o del giustificato motivo è infatti a carico dell’azienda, mentre al dipendente spetta la possibilità di giustificare il proprio comportamento o le connessioni a cause non legate alla propria volontà (Sentenza 7108/2014). Nel caso esaminato, l’azienda aveva fatto ricorso alla Cassazione lamentando la violazione dell’art. 5, L. 604/1966 sui licenziamenti individuali e contestando la mancata considerazione delle assenze ingiustificate rispetto alle quali il lavoratore non era stato in grado di discolparsi. Tuttavia, non era stata in grado di dimostrare le assenze contestate (es.: relazioni tecniche, documenti, dichiarazioni testimoniali, ecc.), se non attraverso la loro indicazione nell’atto di contestazione disciplinare.
Visita fiscale, ultime dalla Cassazione
Impedimento alla visita fiscale di controllo, carattere della sanzione per assenza alla visita: le ultime dalla Cassazione in materia di visite fiscali
* Impedimento alla visita fiscale di controllo
* Assenza visita fiscale, la sanzione non ha carattere disciplinare
* Accertamenti infermità per malattia del lavoratore
* Assenza ingiustificata dal domicilio: non rileva il dolo
* Assenza giustificata alla visita fiscale
* Assenza visita fiscale e condotta del lavoratore
Impedimento alla visita fiscale di controllo
È legittimo il rigetto dell'istanza di rinvio dell'udienza dinanzi al Tribunale di sorveglianza per legittimo impedimento a comparire presentata dal condannato e documentata da un certificato medico, qualora l'indicazione nell'istanza della reperibilità del medesimo in un luogo diverso da quello in cui egli effettivamente si trovi abbia impedito l'esecuzione della visita fiscale di controllo. (Sez. 1, n. 26762 del 16/07/2020, Torres, Rv. 279784).
Cassazione, sentenza n. 35715 del 29/09/2021
Assenza visita fiscale, la sanzione non ha carattere disciplinare
La questione oggetto di giudizio non riguarda una sanzione disciplinare, ovverosia una prestazione imposta a titolo punitivo dal datore di lavoro, ma il regime delle obbligazioni al verificarsi di una malattia, allorquando risulti l'allontanamento del lavoratore negli orari di reperibilità utili allo svolgimento della c.d. visita fiscale. Ciò è reso evidente non solo dal richiamo nel provvedimento della norma di condotta del C.C.N.L. di pertinenza, chiaramente destinata a regolare i comportamenti obbligatori dovuti nell'ambito del rapporto di R. G. n. 22760/2015 lavoro (art. 21, co. 13, del citato CCNL secondo cui «qualora il dipendente debba allontanarsi, durante le fasce di reperibilità, dall'indirizzo comunicato, per visite mediche, prestazioni o accertamenti specialistici o per altri giustificati motivi, che devono essere, a richiesta, documentati, è tenuto a darne preventiva comunicazione all'amministrazione»), quanto piuttosto dalla norma sulla cui base la P.A. ha agito con atto da essa stessa definito di "gestione" del personale (art. 5, co. 14 d.l. 463/1983 conv. con mod. in L. 638/1983, secondo cui «qualora il lavoratore, pubblico o privato, risulti assente alla visita di controllo senza giustificato motivo, decade dal diritto a qualsiasi trattamento economico per l'intero periodo sino a dieci giorni e nella misura della metà per l'ulteriore periodo, esclusi quelli di ricovero ospedaliero o già accertati da precedente visita di controllo»), da cui si desume come quella prevista sia una mera conseguenza obbligatoria, espressamente regolata dalla legge, destinata ad operare all'interno del rapporto previdenziale e quindi dell'I.N.P.S., quando sia tale ente, come nel lavoro privato, ad erogare il trattamento, oppure nei riguardi del datore di lavoro quando, come è nel pubblico impiego, sia quest'ultimo a corrispondere quanto dovuto, ai sensi di legge (ora art. 71 d.l. 112/2008, conv. con mod. in L. 133/2008) o di contrattazione collettiva.
Cassazione, sentenza n. 33180 del 10/112021
Accertamenti infermità per malattia del lavoratore
In tema di licenziamento per giusta causa, la disposizione di cui all'art. 5 St. lav. che vieta al datore di svolgere accertamenti sulle infermità per malattia o infortunio del lavoratore dipendente o lo autorizza a effettuare il controllo delle assenze per infermità solo attraverso i servizi ispettivi degli istituti previdenziali competenti, non preclude al datore medesimo di procedere, al di fuori delle verifiche di tipo sanitario, ad accertamenti di circostanze di fatto atte a dimostrare l'insussistenza della malattia o la non idoneità di quest'ultima a determinare uno stato di incapacità lavorativa rilevante e, quindi, a giustificarne l'assenza (Cass. n. 25162 del 2014; Cass. n. 11697 del 2020; Cass. n. 6236 del 2001). E' insito in tale giurisprudenza, invero, il riconoscimento della facoltà del datore di lavoro di prendere conoscenza di siffatti comportamenti del lavoratore che, pur estranei allo svolgimento di attività lavorativa, sono rilevanti sotto il profilo del corretto adempimento delle obbligazioni derivanti.
Cassazione, sentenza n. 30547 del 28/102021
Assenza ingiustificata dal domicilio: non rileva il dolo
L'ingiustificata assenza del lavoratore alla visita di controllo — per la quale l'art. 5, comma quattordicesimo, del DL. 12 settembre 1983 n. 463 (convertito nella legge n. 638 del 1983) prevede la decadenza (in varia misura) del lavoratore medesimo dal diritto al trattamento economico di malattia — non coincide necessariamente con la materiale assenza di quest'ultimo dal domicilio nelle fasce orarie predeterminate, potendo essere integrata da qualsiasi condotta dello stesso lavoratore, pur presente in casa, che sia valsa ad impedire l'esecuzione del controllo sanitario per incuria, negligenza o altro motivo non apprezzabile sul piano giuridico e sociale. La prova dell'osservanza di tale dovere di diligenza incombe sul lavoratore (v., ex plurimis, Cass. 22 maggio 1999 n. 5000).
Né ha rilievo che la mancata visita avvenga senza dolo da parte dell'interessato, perché ciò che è sanzionato è il fatto obiettivo in sé, indipendente dall'intenzione in concreto del lavoratore (Cass. 30 luglio 1993 n. 8484).
Cassazione, sentenza n. 4233 del 23.11.2021
Assenza giustificata alla visita fiscale
Il giustificato motivo di esonero del lavoratore in stato di malattia dall'obbligo di reperibilità a visita domiciliare di controllo non ricorre solo nelle ipotesi di forza maggiore, ma corrisponde ad ogni fatto che, alla stregua del giudizio medio e della comune esperienza, può rendere plausibile l'allontanamento del lavoratore dal proprio domicilio, senza potersi peraltro ravvisare in qualsiasi motivo di convenienza od opportunità, dovendo pur sempre consistere in un'improvvisa e cogente situazione di necessità che renda indifferibile la presenza del lavoratore in luogo diverso dal proprio domicilio durante le fasce orarie di reperibilità".
Cassazione, ordinanza n. 24492 dell'1/10/2019
Assenza visita fiscale e condotta del lavoratore
L'ingiustificata assenza del lavoratore alla visita di controllo - per la quale l'art. 5, comma quattordicesimo, del D.L. 12 settembre 1983 n. 463, convertito, con modifiche, nella legge 11 novembre 1983 n. 638, - prevede la decadenza (in varia misura) del lavoratore medesimo dal diritto al trattamento economico dì malattia - non coincide necessariamente con l'assenza del lavoratore dalla propria abitazione, potendo essere integrata da qualsiasi condotta dello stesso lavoratore - pur presente in casa - che sia valsa ad impedire l'esecuzione del controllo sanitario per incuria, negligenza o altro motivo non apprezzabile sul piano giuridico e sociale. La prova dell'osservanza del dovere di diligenza incombe al lavoratore (cfr. Cass., 18 novembre 1991 n. 12534; 23 marzo 1994 n. 2816; 14 maggio 1997 n. 4216, Cass. 22 maggio 1999, n. 5000).
Cassazione, sentenza n. 19668 del 22/07/2019
Licenziamento: quando è possibile con il nuovo art. 18
Normativa sul licenziamento
Il licenziamento disciplinare avviene in seguito a comportamenti colposi o dolosi del lavoratore, tanto gravi da compromettere il vincolo fiduciario e quindi non consentire la prosecuzione del rapporto di lavoro.
Licenziamento per giustificato motivo
Il licenziamento per giustificato motivo può essere soggettivo o oggettivo: nel primo caso si ha “un notevole inadempimento degli obblighi contrattuali del prestatore di lavoro», mentre nel secondo abbiamo “ragioni inerenti all’attività produttiva, all’organizzazione del lavoro e al regolare funzionamento di essa» (art 3 legge n. 604/1966). Il giustificato motivo soggettivodi licenziamento deve riguardare l’accadimento di un notevole inadempimento degli obblighi contrattuali da parte del lavoratore, tale da autorizzare il datore di lavoro a recedere dal contratto rispettando, a differenza del caso della giusta causa, un periodo di preavviso.
Esempi: abbandono ingiustificato del posto di lavoro; minacce, percosse; reiterate violazioni del codice disciplinare di gravità tale da condurre al licenziamento e malattia (superamento del periodo di comporto).
Tornando al caso analizzato di assenza ingiustificata, un’ampia giurisprudenza ha spiegato che questa può essere causa di licenziamento solo in base a un principio di proporzionalità. Di conseguenza la valutazione del mancato adempimento va commisurata alle mansioni che il lavoratore svolge e a come la sua assenza rileva sulle attività dell’azienda. Inoltre va considerata la gravità di quanto commesso, quanto sia stato intenzionale, la proporzione tra i fatti e la sanzione irrogata, che può essere quella massima (licenziamento) solo se in seguito a quanto commesso viene meno il rapporto di fiducia tra datore di lavoro e lavoratore. Nel caso di specie è necessaria la presenza, per giustificare il licenziamento, di un notevole inadempimento degli obblighi contrattuali tale da non consentire la prosecuzione, neppure provvisoria, del rapporto di lavoro.
Appare evidente che l’abbandono ingiustificato del posto di lavoro, che non provochi però il blocco del lavoro stesso o un danno grave per l’attività produttiva di per sé non può costituire causa di licenziamento.
Lavoro: si può licenziare per “assenteismo tattico”
Il nuovo principio della Cassazione: non basta l’accumulo. Anche agganciare le malattie ai week end è sanzionabile
05/09/2014
Il principio è innovativo: assenteismo tattico. D’ora in poi un lavoratore non sarà licenziabile solo quando accumula un numero eccessivo di assenze, superando quello che gli addetti ai lavori chiamano «periodo di comporto», ma anche quando le sue assenze a macchia di leopadro sono piazzate ad hoc.
La Cassazione ha infatti confermato il licenziamento di un dipendente di una ditta di materiale edile della provincia di Chieti abilissimo stratega nell’alternare periodi di malattia, ferie e riposi. Il lavoratore, dopo aver ricevuto un rigetto dal giudice di Vasto e dalla Corte d’Appello dell’Aquila, si era rivolto alla Cassazione chiedendo che il licenziamento venisse dichiarato illegittimo visto che il numero complessivo delle sue assenze non aveva superato, appunto, il periodo di comporto.
La Cassazione, però, ha dato peso alle testimonianze degli altri colleghi raccolte dai giudici dell’Aquila secondo cui il dipendente prendeva effettivamente pochi giorni alla settimana, due o tre, la «reiterate» e «costantemente agganciate» ai giorni di riposo. Non solo. Le assenze venivano comunicate all’ultimo momento e soprattutto in coincidenza dei fine settimana o dei turni di notte, creando malumori tra i colleghi e difficoltà all’azienda che faceva fatica a trovare dei sostituti.
Secondo i giudici supremi, questo comportamento configura gli estremi dello scarso rendimento visto che il lavoratore riusciva ad accumulare assenze anche per 520 ore annuali, in pratica un quarto di quelle che si dovrebbe lavorare.
Proprio l’appoggiarsi al principio dello «scarso rendimento» è un’altra novità, seppur non inedita. «Era un principio che veniva adottato soprattutto in alcune sentenze degli Anni Novanta - spiega Fausto Raffone, avvocato esperto in materia di lavoro - Ma negli ultimi quindici anni era stato abbandonato perché le stesse aziende non volevano che fosse un giudice a stabilire quale livello di rendimento fosse accettabile o meno per prevedere un licenziamento».
Riferirsi al principio dello scarso rendimento è, per Raffone, un escamotage per evitare di dover censurare l’attendibilità dei certificati prodotti dai medici, velatamente criticati con l’espressione «assenteismo tattico».
Una questione di recente sotto i riflettori dopo la lettera-provocazione che il sindaco di Locri ha inviato a Gesù Cristo chiedendo che lo liberasse dall’assenteismo dei dipendenti comunali. Su 125 dipendenti, il sindaco denuncia la presenza in ufficio di appena 20-25 persone. Il resto? Certificati medici a raffica.
Cosa cambierà dopo la sentenza della Cassazione? Magari poco, ma certo il clima sembra cambiato. In precedenza si poteva superare il limite del periodo di comporto solo in un caso particolare: quando il lavoratore in questione avesse avuto una malattia o un incidente che avrebbe per sempre ridotto le sue prestazioni lavorative. In quel caso la Cassazione aveva infatti previsto che il datore di lavoro che perdeva interesse a mantenere un lavoratore con limitate capacità lavorative, poteva licenziarlo. Ora la casistica si è allargata: anche con malattie non croniche, ma che possono creare difficoltà nell’organizzazione del lavoro aziendale, quando evidentemente viziate da una certa tattica, è il datore di lavoro a poter far valere il suo diritto.